Ad un vincitore nel pallone. 2

 

 

Ad un vincitore nel pallone. 2

che veniva praticato quasi esclusivamente dai nobili o da persone che potevano dedicare del tempo libero a questo svago. A ciò si aggiunga il fatto che questo gioco era vissuto non tanto come sport collettivo, quanto, invece, come sfida tra personalità individuali, a dimostrare che si trattava di una “contesa più psicologica che fisica”[1]. Dunque pur essendo seguitissimo dal popolo che si entusiasmava, non comparivano in queste sfide persone semplici e lavoratori della terra, poiché si trattava di un otium riservato appunto a chi non aveva preoccupazioni di sorta. Le partite più seguite, che venivano organizzate in occasioni di feste paesane, erano quelle che mettevano di fronte giocatori appartenenti a famiglie nobili che per tradizione erano rivali oppure quelle tra atleti rappresentanti di diverse contrade. Fra i giocatori spiccava decisamente la figura di Carlo Didimi[2],  che ben presto divenne un mito leggendario. Di temperamento passionale e anticonformista era nato a Treja, un paesino delle Marche non lontano da Recanati, lo stesso anno di Giacomo che ne cantò le gesta nella sua Canzone. Ma, ci chiediamo, come mai egli fu così attratto dal giovane  trejese al punto da renderlo immortale?

Dobbiamo, per un momento, tornare a quel desiderio di gloria che aveva sempre manifestato fin da bambino, a quell’ammirazione per gli eroi greci che incarnavano il vigore, la passione, l’entusiasmo, la vitalità insomma. Giacomo, quando scrisse il suo componimento, ancora non era conosciuto e ammirava sinceramente nel notissimo Carlo Didimi non solo il giocatore che sempre riportava vittorie ma anche la figura dell’eroe coronato dalla fama che si era conquistato in tutti gli sferisteri d’Italia. Un eroe contemporaneo, un eroe da celebrare nell’ultima delle cinque Canzoni civili, un eroe da porre senza alcuna esitazione accanto alle grandi figure della storia italiana[3]. Ci sembra significativo sottolineare questo suo celebrare un campione sportivo che, evidentemente, non essendo un oscuro campione di provincia ma un vero e proprio mito, poteva ben figurare nel gruppo dei suoi cinque componimenti.

La “sudata virtude”[4], ovvero il sacrificio e la lotta indispensabili per conquistare una vittoria, Leopardi li vedeva incarnati nel campione trejese a tal punto da considerarlo un esempio per i giovani italiani; in lui erano presenti la forza, il vigore e la combattività,  tutte virtù che egli aveva trovato nei giovani greci delle Olimpiadi che combattevano per difendere la patria.

Così, ai suoi occhi, avrebbero dovuto essere i giovani, non certo adagiati in un “femminile ozio”[5], in quell’ ignavia molle che paralizza il desiderio, non solo di compiere cose grandi, ma anche di vivere. Vivere quindi, non meramente esistere!

Gli occhi di Giacomo, costantemente rivolti all’uomo, si soffermavano particolarmente sull’età giovanile, così pregna di quei “forti errori”[6] che sono le illusioni tipiche della primavera della vita: la patria, la virtù, l’amore, cari “lieti inganni”[7] e “ parvenze d’infinito” che mantengono, anzi spingono l’uomo in avanti, “lo muovono a grandi cose”[8], nella convinzione che la vita è degna di essere vissuta appieno. E si parla proprio di “vita” e non di “esistenza” poiché quest’ultima è solo una “vita monotona e inattiva” , quindi quasi un “sinonimo di morte”; la vitalità è invece mantenuta dagli “esercizi e [dall’] attività continua del corpo primieramente e poi […] gli esercizi e l’attività dell’anima, la varietà, il movimento, la forza delle azioni ed occupazioni”. Sono queste le “cause certe e grandi di vitalità”.[9]

Cos’è, infatti, la vita se non illusione? Le illusioni non sono “mere vanità, ma […] cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita”[10].

Leopardi amava i giovani e le sue riflessioni miravano a mantenere accese le loro illusioni; pur cosciente della sua impossibilità fisica, e forse proprio per questo, egli amava incitarli all’azione, coerente con l’idea che l’uomo è nato per agire, più che per pensare[11]. Il suo sguardo, dunque, era denso di amorevole partecipazione del tutto scevra da quell’invidia che, invece, tanti nella sua situazione avrebbero sofferto. Quell’invidia per “le felicità [altrui, che] cade ordinariamente sopra quei beni che noi desideriamo di avere e non abbiamo, o de’ quali vorremmo esser gli unici o i principali possessori ed esempi”[12].

Il trejese, bello e aitante, non era un erudito quasi a riprova di quanto allora pensava Giacomo convinto che “il vigor del corpo nuoce alle facoltà intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo contrario l’imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere, e chi riflette non opera, e poco immagina, e le grandi illusioni non son fatte per lui”[13].   Egli rappresentava, agli occhi di Leopardi, il giovane gagliardo che attualizzava alla perfezione il mito della gioventù greca; quel mito che tanto aveva affascinato il giovane studioso che, chino sui tanti tomi di conoscenza, aveva cercato, da fanciullo, di rivivere nel gioco proprio quel mito.


[1]  Meriggi, Il pallone…, cit., p. 31.

[2]  Per dettagliate notizie sul Didimi si veda il citato lavoro di Alberto Meriggi.

[3]  La prima Canzone fu dedicata all’Italia, la seconda a Dante, la terza ad Angelo Mai, la quarta, scritta per le nozze della sorella Paolina, era rivolta alle donne italiane. La quinta fu rivolta, appunto, al “magnanimo campion” Carlo Didimi.

[4]  A un vincitore nel pallone, v. 4.

[5]  Ivi, v. 3.

[6]  Ivi, v. 37.

[7]  Ivi, vv. 34-35.

[8]   Zib. 14-15.

[9]   Zib. 628, 8.2.1821.

[10]  Lettera a Pietro Giordani del 30.6.1820, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 414.

[11]   Cfr. Zib. 3993, 19.12.1823, in cui Leopardi riporta questa citazione dalle Lettres du Roi de Prusse et M. d’Alembert. Lettre CCXXXVII, du Roi. Si veda anche Il Parini ovvero della gloria.

[12]   Zib. 204, 10.8.1820.

[13]   Zib. 115, 7.6.1820. Da sottolineare che, conscio che la notorietà e la gloria hanno un carattere effimero, il Didimi riuscì però a mantenere intatti i propri valori più alti, anche quando fu all’apice del successo ed è pure interessante ricordare che egli si impegnò attivamente in politica organizzando attività di cospirazione di ispirazione mazziniana. Quando poi la sua età lo costrinse a diradare gli impegni sportivi egli si dedicò ai suoi incarichi pubblichi tra i quali quello di amministratore del Comune di Treja.

Un pensiero riguardo “Ad un vincitore nel pallone. 2

  1. Salve.. ho visto sfogliando un pò di siti questa pagina riguardante una poesia che mi interesserebbe molto.. però non capisco dove posso trovare la parte iniziale..mi darebbe una mano? grazie mille

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